ART. 18: LE VERITA' NASCOSTE
Desta grande sconcerto, tra gli operatori
giuridici (avvocati, magistrati) che quotidianamente hanno a che fare, per il
loro lavoro, con la tematica dei licenziamenti, il livello di approssimazione e
di assoluta lontananza dalla realtà con cui tanti autorevoli personaggi della
politica, del giornalismo e persino dell'economia affrontano l'argomento,
contribuendo ad alimentare una campagna di disinformazione senza
precedenti.
Sta infatti entrando nella convinzione del
cittadino (che non abbia, in prima persona o attraverso persone vicine, vissuto
il dramma della perdita del posto di lavoro) la falsa impressione che in Italia
sia pressoché impossibile licenziare, persino nei casi in cui un'impresa, in
comprovate difficoltà economiche e finanziarie, con forte calo di ordini e
bilanci in rosso, avrebbe necessità di ridurre il proprio personale (caso spesso
citato nei dibattiti televisivi per mostrare l'assurdità di una legislazione che
ingessi fino a questo punto l'attività imprenditoriale). Queste leggi assurde,
poi, si salderebbero con una asserita "eccessiva discrezionalità interpretativa"
dei magistrati (categoria della quale, nell'ultimo ventennio, ci hanno insegnato
a diffidare) e sarebbero la causa, o quantomeno la concausa, del precariato
giovanile.
Senza considerare che è l'Europa a chiederci di
rivedere la normativa in tema di licenziamenti, perché eccessivamente rigida.
Inoltre il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe un' "anomalia
nazionale".
Come si sa, il principio di propaganda che
sostiene che "una bugia ripetuta mille volte diventa verità" paga, ed è
estremamente rara, nei talk show televisivi, la presenza di giuslavoristi che
raccontino cosa effettivamente accade nei luoghi di lavoro, nelle trattative
sindacali, negli studi degli avvocati e nelle aule di giustizia: che cioè la
legge già consente di licenziare per motivi "inerenti all'attività produttiva,
all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" e che
conseguentemente i licenziamenti per riduzione di personale avvengono
quotidianamente, sia da parte di aziende con meno di 16 dipendenti (che non
hanno altro onere che quello di pagare un'indennità di preavviso molto più bassa
di quella prevista in altri paesi europei: solo ove un giudice accerti che le
motivazioni addotte non sono vere, dovrà pagare un'ulteriore indennità, comunque
non superiore a sei mensilità) sia da parte delle grandi aziende (che in caso di
esubero di personale di più di cinque unità devono solo seguire una procedura
che coinvolge il sindacato, ma che le vincola - anche in caso di mancato accordo
sindacale al suo esito - esclusivamente a seguire dei criteri oggettivi nella
selezione del personale da licenziare). Al di fuori dei licenziamenti per motivi
economici - rispetto ai quali il giudice ha (solo) il potere di effettuare un
controllo: a) di verità sui motivi addotti nei licenziamenti individuali e b) di
regolarità della procedura nei licenziamenti collettivi - l'art. 18 si applica,
ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti
individuali, quasi sempre per motivi disciplinari.
E qui, di volta in volta, il magistrato valuta
il caso concreto, che non è mai come quelli da barzelletta che vengono talvolta
riportati per dimostrare l'arbitrarietà del giudice e la presunta assurdità del
sistema. Da oltre trent'anni si sente parlare del caso del garzone del macellaio
amante della moglie del datore di lavoro, che sarebbe stato reintegrato perchè i
fatti avvenivano al di fuori dell'orario di lavoro. Basta che una falsa notizia
come questa venga detta in televisione, ed ecco che il quadro è completo e il
prodotto confezionato: l'opinione pubblica, dopo un mese di questa martellante
propaganda, è pronta ad accettare le giuste soluzioni che - condivise o non
condivise da tutti i sindacati - ci facciano fare quel passo decisivo per
adeguare l'Italia alle nuove esigenze della globalizzazione e renderla
finalmente competitiva anche rispetto ad altri paesi europei che hanno una
maggiore flessibilità in uscita.
Ma è proprio vera quest'ultima cosa? Come mai
non riusciamo a leggere in nessun giornale che gli indici OCSE che segnalano la
cd. rigidità in uscita collocano attualmente l'Italia (indice dell'1.77) al di
sotto della media europea (basti dire che la Germania ha l'indice 3.00)? Ed è
proprio vero che il diritto alla reintegrazione (in caso di licenziamento
dichiarato illegittimo) è previsto solo nel nostro Paese? Premesso che il
discorso dovrebbe essere approfondito, va detto che in certi Paesi è addirittura
costituzionalizzato (Portogallo) ed in altri è un rimedio possibile (ad esempio
Svezia, Germania, Norvegia, Austria, Grecia, Irlanda, in taluni casi Francia)
spesso accompagnato da ulteriori tutele.
La verità è che non esiste un vero collegamento
tra la ripresa produttiva e la libertà di licenziare, e forte è quindi il timore
che il "governo tecnico", approfittando della crisi economica, possa dare
attuazione ad un antico progetto di riassestamento del potere nei luoghi di
lavoro, che per essere esercitato in modo sovrano mal tollera l'esistenza di
norme di tutela dei lavoratori dagli abusi. Perchè è questo, e solo questo, il
senso profondo dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: una norma che
sanziona il comportamento illegittimo del datore di lavoro ripristinando lo
status quo ante che precedeva il licenziamento - lo si ribadisce - illegittimo.
E la cui esistenza, per l'appunto, impedisce che il potere nei luoghi di lavoro
(con più di 15 addetti, purtroppo, perchè altrove, appunto, tale tutela non c'è)
possa essere esercitato in modo arbitrario e lesivo della dignità dei
dipendenti.
Ma nello stesso tempo occorre valutare con
estrema attenzione anche tutte quelle prospettate soluzioni che, prevedendo la
"sospensione temporanea" dell'articolo 18 per i primi tre o quattro anni per i
giovani in cerca di un'occupazione stabile, teoricamente non sottrarrebbero la
tutela dell'art. 18 "a chi già ce l'ha".
Occorre, infatti, quanto meno scongiurare
l'ipotesi che in tale formula rientrino tutti i nuovi rapporti di lavoro poiché,
altrimenti, inevitabilmente vi ricadrebbero anche coloro che, pur avendo goduto
in passato della tutela dell'articolo 18, si ritrovino in stato di
disoccupazione (dato che, come abbiamo visto, la norma non vieta affatto di
licenziare, sanzionando solo i licenziamenti privi di giusta causa o
giustificato motivo, e quindi solo quelli illegittimi). E dal momento che,
checché se ne dica, il posto di lavoro fisso a vita è veramente un sogno e il
mercato del lavoro è in continuo movimento (specie per quanto riguarda
l'invocata flessibilità in uscita), nel caso in cui le disposizioni in cantiere
non siano circoscritte con precisione, avremmo un esercito di disoccupati
attuali o potenziali anche ultracinquantenni che, lungi dal portarsi dietro,
infilato nel taschino della giacca, l'articolo 18 goduto nel precedente posto di
lavoro, ingrosserebbero le fila dei nuovi precari. Perchè diversamente non
possono essere considerati dei dipendenti che per tre o quattro anni siano
sottoposti al ricatto della mancata stabilizzazione ove non "righino dritto"
senza ammalarsi, fare figli, scioperare o avanzare rivendicazioni di sorta (e
se, alla fine del triennio, non vi sarà - com'è probabile - alcuna garanzia di
"stabilizzazione" del rapporto, in questo gioco dell'oca si potrà tornare alla
casella di partenza, con un diverso datore di lavoro...).
Ecco quindi che, per altra strada, si
arriverebbe a ridimensionare anche i diritti di coloro ai quali l'articolo 18
attualmente si applica, risultato che la propaganda vorrebbe finalizzato a
favorire quelli che ne sono esclusi: come ha scritto Umberto Romagnoli, è come
avere la pretesa di far crescere i capelli ai calvi rapando chi ne ha di
più.
Un'ultima annotazione su un'altra soluzione di
cui si sente parlare: la sostituzione della sanzione prevista dall'articolo 18
(reintegrazione) con un'indennità in tutti i casi di licenziamenti semplicemente
motivati da ragioni economiche.
Si è già detto che tali licenziamenti sono già
consentiti, e secondo l'art. 30 della legge 183 del 2010 "il controllo
giudiziale è limitato esclusivamente (...) all'accertamento del presupposto di
legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni
tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro".
Cosa si vuole di più? Perchè si vorrebbe
impedire al giudice anche un accertamento di legittimità (e non di merito) sulle
motivazioni addotte? Forte è il sospetto che in questo modo si voglia consentire
al datore di lavoro di liberarsi di dipendenti scomodi semplicemente adducendo
una motivazione economica, anche se non vera. Sancendo così, automaticamente, il
pieno ritorno agli anni cinquanta, quando i licenziamenti erano assolutamente
liberi e la Costituzione nei luoghi di lavoro, faticosamente introdotta nel 1970
dallo Statuto dei lavoratori, semplicemente un sogno.
Auspichiamo proprio che, con la scusa di dover
riformare il mercato del lavoro, non si arrivi a tanto.
Nessun commento:
Posta un commento