Lavoro, ritorno al passato
I manuali di diritto del lavoro
adottati nelle facoltà di Giurisprudenza partono tutti da un concetto
consolidato: il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai
normali rapporti tra contraenti, avendo invece un contenuto e una ratio
speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in
posizione di disparità sostanziale.
La debolezza del lavoratore è
rinvenibile in due cause fondamentali: il suo salario è fonte esclusiva, o
prevalente, di sostentamento per lui e la sua famiglia e il mercato del lavoro
lo pone in condizione di debolezza, per un eccesso di domanda e una scarsità di
offerta, condizionando quindi il contenuto del contratto in senso a lui
sfavorevole, con effetti sullo svolgimento del rapporto, caratterizzato da una
soggezione al datore di lavoro e al suo potere direttivo e disciplinare.
Da qui il caratterizzarsi del
diritto del lavoro come diritto "diseguale", cioè tendente a
riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere nella
conclusione del contratto e nella conduzione del rapporto; prefissando questo
contenuto ex lege e sottraendolo alla libera disponibilità dei contraenti. Le
norme che regolano il rapporto di lavoro hanno, dunque, una funzione specifica,
accettata dalla scienza giuridica e riconosciuta altresì dalla giurisprudenza:
assicurare una parità sostanziale, almeno nei rapporti giuridici, tra soggetti che
si trovano invece in una condizione di disparità.
I temi e le proposte discussi
in questi ultimi giorni, segnatamente riguardo ai licenziamenti, art. 18 dello
Statuto dei lavoratori e ripensamento delle norme che regolano i rapporti tra
datore e prestatore di lavoro, vanno trattati avendo bene in mente la filosofia
della dottrina giuslavoristica. Occorre, in tal senso, mettere in chiaro un
primo aspetto: il diritto del lavoro non ha, come finalità primaria, la
crescita, il rilancio dell'economia, la dinamicità delle imprese di un Paese.
Il diritto del lavoro serve - anche per favorire indirettamente il
raggiungimento di questi ultimi obiettivi - a tutelare il prestatore d'opera,
riequilibrando il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro. Questa
finalità - che dovrebbe rimanere intoccabile - è funzionale al benessere
dell'economia, alla tutela dell'ordine pubblico, alla pace sociale: un
lavoratore ben retribuito o sicuro del suo posto lavorerà meglio e sarà
disposto a fare sacrifici per l'impresa in cui lavora; un lavoratore con
salario dignitoso, cui sono garantite ferie, malattia e pause pranzo sarà ben
disposto a consumare, investire, creare una famiglia, iscrivere i propri figli
all'università; un lavoratore garantito e retribuito in modo equo avrà meno
ragioni per ribellarsi, per protestare, per cercare soluzioni nell'illegalità.
E così via.
La tutela del contraente debole
ha, quindi, anche riflessi sociali generali, favorendo lo sviluppo di una
società sana, fondata sul lavoro (come prevede la Costituzione) ed
economicamente autosufficiente. Ma la tutela del contraente debole, non si
dimentichi, costituisce anche un baluardo giuridico contro lo sfruttamento, la
diseguaglianza, le vessazioni, il ricatto. La tutela del lavoratore serve a garantire
una serie di condizioni che in nessun modo possono essere considerate come
privilegi o eccessi di tutele, ma che costituiscono la base del nostro
ordinamento giuridico (si vedano, tra gli altri, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della
Costituzione) e i fondamenti di una società civile ed evoluta: si tratta della
dignità, dell'eguaglianza sostanziale, della libertà di scelta e di
autodeterminazione.
A fronte di tutto ciò e avendo
in mente la situazione economica attuale, che vede numerosi comparti produttivi
in crisi, un'economia stagnante e una crescita zero, la "giuslavoristica
del licenziamento facile" chiede sacrifici ai lavoratori. Chiede un
mercato del lavoro ancor più flessibile e, con uno strano concetto di
eguaglianza al ribasso - proprio delle economie sovietiche - domanda che sia la
flessibilità, invece delle garanzie, a essere estesa a tutti i lavoratori. Così
che l'economia possa ripartire, che gli imprenditori investano e finiscano per
assumere anche di più, trasformando quella flessibilità in un rapporto
continuo, magari non scritto nella roccia, ma tenuto al sicuro dalla continua
crescita economica e dal dinamismo delle stesse imprese.
Questa idea, anche quando mossa
da assoluta buona fede e supportata da studi economici autorevoli, si è già
rivelata un'utopia. Lo ha dimostrato la storia più recente, lo testimoniano
dati attuali, i quali ci dicono che l'Italia è già troppo flessibile se
confrontata con gli altri Paesi dell'Ocse, che il sillogismo maggior
flessibilità uguale a maggior benessere dell'impresa, non funziona, che senza
nuove e apposite politiche strutturali di rilancio dell'economia la crescita,
tanto acclamata, non potrà ripartire.
A ciò si aggiunga che oggi, in
Italia, l'art. 18 si applica al 5 per cento delle imprese nazionali (le imprese
con più di 15 lavoratori sono pochissime) e che la stessa norma non impedisce
di licenziare in caso di perdite o recessione dell'azienda, quindi non è un
limite alla crescita e al benessere dell'impresa.
A cosa serve allora una riforma
del lavoro che riduca le tutele e le garanzie dei lavoratori, che estenda la
flessibilità a tutte le categorie, che depotenzi i poteri del sindacato? Non a
rilanciare l'economia. Semmai a impoverire il diritto del lavoro: quell'insieme
di norme a tutela di diritti fondamentali che costituiscono la civiltà di una
società industriale. Se esso viene rimosso, non si riparte, si torna indietro,
si va verso il passato.
Dario Bevilacqua
11/01/2012
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